L’Arca dell’Alleanza conosciuta anche come l’Arca della Testimonianza o l’Arca di Dio, è un presunto manufatto ritenuto la reliquia più sacra degli Israeliti. Secondo il Libro dell’Esodo, conteneva le due tavole di pietra dei Dieci Comandamenti.
Iniziamo in Es 25,10-16 dove Yahweh fornisce a Mosè le indicazioni precise per fabbricare una cassa il cui scopo sarà quello di contenere e conservare la lJF_ [edut], «testimonianza», che lo stesso Elohim darà a Mosè. Dt 10,1-5 afferma espressamente che custodiva le Tavole della Legge.
Le indicazioni sull’Arca fornite direttamente da Yahweh erano le seguenti:
- Costruita in legno di acacia;
- Lunga 2,5 cubiti, larga 1,5 cubiti e alta 1,5 cubiti (circa 112,5 x67,5 x 67,5 cm);
- Ricoperta d’oro puro sia dentro che fuori e contornata superiormente da un bordo anch’esso d’oro;
- Dotata ai quattro piedi di altrettanti anelli d’oro, due per lato, nei quali si introducevano due stanghe di acacia che venivano utilizzate per il trasporto e che non dovevano mai venire estratte dagli anelli.
Queste sono dunque le istruzioni impartite e non possiamo certo fare a meno di rilevare la stranezza rappresentata da un “Dio” impegnato in descrizioni tanto particolareggiate sulle modalità di costruzione delle suppellettili destinate al suo culto e comunque a impieghi che non ci aspetteremmo da oggetti costruiti 3400 anni fa circa.
Ci chiediamo infatti perché fosse fondamentale che quello, come altri elementi spesso ritenuti semplicemente ornamentali, venisse fatto in una determinata foggia, con misure, forme e materiali ben precisi. Le istruzioni impartite per l’Arca riflettono più in generale la stessa meticolosa e pignola precisione che si riscontra in tutti gli altri oggetti o strutture che Mosè fece realizzare sulla base delle indicazioni ricevute sul monte. Le stesse che troviamo distribuite e ripetute in numerosi capitoli del libro dell’Esodo (dal 25 al 30) e non solo.
Dobbiamo pensare inoltre che tali indicazioni si siano mantenute sostanzialmente intatte per secoli prima di essere messe per iscritto: la precisione è tale che ancora oggi si potrebbero forse ricostruire le stesse strutture e gli stessi oggetti rispettandone la forma e la funzionalità.
Intanto rileviamo che Yahweh raccomanda a Mosè per almeno tre volte di seguire fedelmente il lS[Bl [tavnit], «progetto, disegno, modello», che lui gli aveva fatto vedere sul monte (Es 25,9; 25,40). La Bibbia qui è chiara e non fornisce adito a dubbi: l’Elohim, in uno degli incontri sul monte che era la sua dimora, mostra a Mosè una raffigurazione precisa (disegno, progetto o modello) di ciò che doveva essere realizzato.
Il testo non consente neppure lontanamente di ipotizzare che si sia trattato di visione, sogno, rivelazione o quant’altro: l’immediatezza del racconto ci trasmette la sensazione chiara che sul monte Mosè ha potuto/dovuto consultare ed esaminare un modello/disegno preciso, con tanto di misure.
Questo elemento tornerà tra breve, nella traduzione di un termine che, come vedremo, rimanda al carattere inequivocabilmente tecnico delle indicazioni per le suppellettili.
Sistema di comunicazione radio
Le istruzioni di Yahweh proseguono con un elemento che dovrà essere posizionato sopra l’Arca e fungere da supporto per i cherubini: il lf`U [kapporet], «propiziatorio».
Presenta le stesse dimensioni dell’Arca e dovrà essere realizzato interamente in oro puro.
Il vocabolo ebraico viene tradotto normalmente con il termine «propiziatorio», ma il significato primo della radice è quello di «coprire e proteggere».
Innanzitutto siamo autorizzati a pensare che si trattasse della copertura (coperchio) dell’Arca e che, per estensione di significato, abbia poi successivamente assunto la funzione con la quale è normalmente conosciuto, quella di “coprire i peccati”, nel senso di rimettere le colpe, anche a seguito di sacrifici propiziatori come quelli compiuti nel rito solenne dell’espiazione, celebrato annualmente dal Sommo sacerdote (Lv 16,14-15).
Ma, fuori da ogni interpretazione e attribuzione successiva, lo scopo originario viene spiegato con precisione dallo stessoYahweh, come vedremo tra poco.
L’Elohim ordina a Mosè (Es 25,18-20):
BHM rSBfU rS[v lSv_J
oro cherubini due farai-e
rlA Hv_l HvdY
essi farai lavorato-metallo
lf`UH lJbd S[vY
propiziatorio-il di-estremità di-due-da
L’inserimento dei cherubini definisce un elemento di differenziazione rispetto ai modelli o disegni di arche simili a questa presenti in Egitto: queste ultime, infatti, avevano di norma una copertura semicilindrica o costituita da due elementi spioventi mentre l’Arca biblica aveva un coperchio piatto dotato di una cornice.
L’altra caratteristica che la differenziava dai modelli egizi era costituita dall’insieme delle stanghe che, laminate com’erano d’oro, costituivano una sorta di continuum con il resto dell’Arca, anch’esso rivestito d’oro. Come abbiamo detto sopra, le stanghe per il trasporto non dovevano mai essere tolte e, probabilmente, questo aveva un valore funzionale nella conduttività di un sistema che pare proprio avere le caratteristiche di un generatore e/o condensatore elettrico.
Nel versetto successivo Yahweh precisa nuovamente che i due cherubini andavano posizionati alle estremità del cosiddetto «propiziatorio» – evidentemente era un particolare tecnico di non poca importanza – e poi prosegue spiegando che le loro ali dovevano coprire il coperchio dell’Arca.
Si evidenzia qui chiaramente la funzione fondamentale del vocabolo t[U [kanaf] sempre tradotto con «ali».
Queste estremità si stendono per coprire e proteggere: «Cover and nconceal from view, covering, protecting» chiarisce l’Etymological Dictionary of Biblical Hebrew del Rav MaTityahu Clark.
I due cherubini sono piazzati certamente l’uno di fronte all’altro, ma in relazione al loro posizionamento rispetto al propiziatorio poniamo una questione.
Tutte le traduzioni bibliche e tutte le rappresentazioni iconografiche dell’Arca posizionano invariabilmente i cherubini “sopra” il propiziatorio, ma il testo non è così esplicito in questo senso; dice infatti che essi:
Sono posizionati «alle estremità» del propiziatorio;
- Sono rivolti «verso» il propiziatorio;
- Le loro ali si stendono per coprirlo.
Lo ripete anche in Es 37,7-9:
- Fece i due cherubini alle estremità del propiziatorio;
- Fece un cherubino «da estremità da questa» e l’altro cherubino «da estremità da questa» del propiziatorio (cioè uno per parte);
- I cherubini erano «stendenti le ali da al di sopra»;
- I cherubini erano «coprenti con ali loro sopra il propiziatorio»;
- I cherubini erano posti uno di fronte all’altro;
- Le facce (parti frontali) dei cherubini erano «verso» il propiziatorio.
Non possiamo quindi essere certi del fatto che queste due strutture fossero poste sopra il coperchio e possiamo orientati a pensare che in realtà potessero avere un posizionamento esterno rispetto al propiziatorio: non è facile avere certezze in merito.
L’insieme di propiziatorio e cherubini è stato oggetto di numerose interpretazioni simboliche, che si possono sintetizzare nella loro presunta funzione di manifestare la presenza spirituale di “Dio”, una specie di dimora virtuale che doveva perpetuare il senso della pienezza divina, sempre presente anche quando non vi era più
Mosè a fungere da intermediario e da portavoce.
Ma la descrizione che ne fornisce il passo dell’Esodo si presenta come decisamente più funzionale; non giustifica l’interpretazione simbolica e neppure evidenzia l’utilizzo con finalità espiatorie.
Vedremo presto che è proprio la sua fisicità meccanica a colpire chi analizza il testo con mente libera da condizionamenti teologici o spiritualisti.
È lo stesso Yahweh che spiega a Mosè l’impiego che egli intende farne (Es 25,22):
lf`UH W_Y rv nW SlF_J[J
propiziatorio-il sopra-da là te-con incontrerò-mi-e
rSBfUH S[v sSBY
cherubini-i di-due (a-mezzo-in)tra-da
lF_H sfAW_ fvA
testimonianza-la di-arca-sopra che
Gli dice anche [dibbarti itcha], cioè «parlerò con te», proprio da quella struttura: il propiziatorio con gli elementi chiamati cherubini a esso sovrapposti aveva chiaramente lo scopo di consentire l’incontro e la comunicazione tra l’Elohim e Mosè.
Siamo quindi in presenza di un luogo fisico, in cui avviene un contatto, e di un oggetto attraverso cui si parla: non ci sono dubbi sulle parole di colui che avrebbe potuto parlare e farsi intendere sempre e dovunque.
Leggendo il passo comprendiamo che questo “Dio” ha la necessità di comunicare verbalmente con Mosè.
Egli usa la voce, si esprime in una lingua comprensibile a Mosè e, quando non gli è possibile essere personalmente presente, lo fa attraverso un apparato la cui fabbricazione doveva seguire regole precise.
E allora ci chiediamo:
- Perché tanta precisione?
- In caso contrario non avrebbe funzionato?
- Perché “Dio” avrebbe dovuto servirsi di uno strumento per sentire la voce del suo interlocutore e per impartire i suoi ordini?
- Com’è possibile che l’Ente supremo abbia necessità di un apparecchio fisico?
- Perché non comunicare con sistemi che gli sarebbero stati certamente accessibili, senza dovere usare la mediazione di strumenti meccanici?
- Perché limitare fisicamente la possibilità di interloquire quando lo avrebbe potuto fare in qualsiasi momento e in ogni luogo?
- Dobbiamo prendere atto del fatto che non poteva fare diversamente?
- L’Arca, con tutto il suo apparato, era quindi un vero e proprio
sistema ricevente e trasmittente?
Non lo sappiamo con certezza, ma con certezza possiamo invece dire che un contatto di tipo psichico/spirituale/medianico non richiederebbe e non giustificherebbe tanta precisione meccanica, anzi rappresenterebbe certamente un ostacolo.
Infatti è proprio “Dio” stesso a dire che (Nm 12,8):
JB-fBFA H`-WA H`
lui- con-parlo bocca-(a)verso bocca
lJFSOB AWJ HAfYJ
enigmi-per non-e (apparenza, aspetto)vista-e
Dunque i due parlavano di persona e Mosè vedeva con i suoi occhi il proprio Elohim.
Il rabbino Moshe Levine nel suo lavoro Le Tabernacle (Ed. Soncino, 1968) afferma che l’Arca, in base al racconto biblico, è assimilabile a un condensatore elettrico costituito da due armature (l’oro dentro e fuori) separate da un dielettrico (il legno all’interno).
Come abbiamo visto era infatti costituita di tre elementi:
Una lamina interna d’oro puro, che sappiamo essere un ottimo conduttore;
Uno strato intermedio di acacia, il cui legno funge da isolante, resiste all’umidità e garantisce una lunga durata nel tempo;
Un altro strato d’oro come rivestimento esterno.
Se riteniamo però plausibile questa descrizione delle funzionalità dell’Arca, le ali dei due cherubini
farebbero pensare a due pannelli o elettrodi aventi la funzione di scaricare l’elettricità statica accumulata
dal condensatore oppure ad antenne del sistema trasmittente.
Non vi sono ovviamente certezze, ma la descrizione che abbiamo dell’intera struttura induce ancora una volta a non poter assolutamente considerare i cherubini degli esseri spirituali, dotati di personalità propria e di tutte le caratteristiche elaborate dalla tradizione religiosa.
Infatti:
- Le ali non servono per volare, ma solo per coprire;
- Non sono mai citate le ruote, che invece rappresentano un elemento importante per i cherubini descritti negli incontri di Ezechiele con il [kavod], con tutte le manifestazioni che sempre accompagnano il suo arrivo.
Possiamo veramente considerarli appartenenti alla stessa categoria di oggetti o enti?
Difficile da sostenere.
Una possibile risposta ci proviene dal libro dei Numeri, e precisamente dal passo in cui si dice con una certa chiarezza che quando Mosè entrava nella Tenda del Convegno per parlare con lui (7,89) «udiva la sua voce parlare da sopra il coperchio dell’Arca in mezzo ai cherubini».
Il testo è chiaro: Mosè ode una voce provenire da una struttura fatta di legno rivestito di oro, modellato in foggia particolare, con elementi aerei anch’essi in oro orientati in una precisa direzione.
Ne consegue che in questo caso il termine rSBfU [keruvim] indicava un qualcosa di decisamente diverso da quanto è stato poi descritto da Ezechiele. Tutto ciò non ci deve stupire; nella polisemia della lingua ebraica le radici consonantiche sono portatrici di un significato originario che si estende a tutte le sue possibili applicazioni: così il valore di «coprire» insito nella radice [krv] poteva benissimo indicare sia la particolare conformazione di oggetti volanti con ali che coprono la struttura, sia la funzione svolta da pannelli che si trovavano sopra il coperchio dell’Arca.
Non ne abbiamo ovviamente certezza assoluta, ma la coerenza dei racconti fornisce basi su cui costruire ipotesi attendibili.
Da ciò che emerge, i rSBfU [keruvim] si presentano quindi come strutture meccaniche molto articolate e forse anche di diversa natura:
Quelli collegati al [kavod] (Libro di Ezechiele che qui non trattiamo) hanno l’aspetto di oggetti volanti che con esso si muovono, si alzano e si abbassano, ma sono anche velivoli capaci di movimento autonomo, grazie a sistemi di propulsione che possiamo ipotizzare in quelle strutture che la Bibbia descrive sempre come cerchi che ruotano rapidamente (turbine?);
Quelli che si trovano sull’Arca potrebbero invece avere la forma e le funzioni strettamente legate alla natura di quell’oggetto che si presenta come un condensatore, un sistema ricetrasmittente e, come ora vedremo, anche una potenziale arma.
L’Arca come arma
Gli appartenenti alla tribù di Levi erano gli unici autorizzati a provvedere al trasporto dell’Arca: passavano due stanghe dorate negli anelli e dal bordo al suolo la conduzione poteva avvenire per presa di terra naturale, scaricandosi senza pericolo.
Non sappiamo se un tale condensatore sarebbe stato in grado di accumulare anche notevoli quantità di energia statica i cui utilizzi potevano essere diversi: da ricetrasmittente ad arma fino a essere impiegata, secondo alcuni, nella distruzione delle mura di Gerico.
Questa per la verità è un’ipotesi che da tempo viene formulata, ma dobbiamo dire che il testo biblico non fornisce elementi che possano fare attribuire con precisione all’Arca la caduta delle mura.
Nel capitolo 6 del libro di Giosuè la presa della città di Gerico avviene a seguito di una procedura quanto meno strana.
Per sei giorni l’esercito israelita doveva compiere un giro completo attorno alle mura accompagnato dall’Arca, preceduta a sua volta da sette sacerdoti dotati di sette trombe di corno di montone: si marciava al suono di queste.
Il settimo giorno quella turba di combattenti e sacerdoti avrebbe dovuto compiere sette giri attorno alle mura e i sacerdoti avrebbero fatto suonare le trombe. Il suono prolungato di una tromba avrebbe dato un segnale per il popolo che doveva allora emettere all’unisono un forte grido di guerra e, in quel momento, le mura
sarebbero crollate.
Queste erano le indicazioni impartite.
Come si evince dal racconto, l’azione dell’Arca non è chiara, non viene descritto nessun suo particolare utilizzo, pertanto non ci sentiamo autorizzati a lavorare eccessivamente con la fantasia. Il tutto fa pensare a una funzione di carattere spettacolare, di ordine soprattutto psicologico e con finalità diversive.
Si dovevano distrarre i difensori da quanto stava probabilmente avvenendo.
Uno dei sistemi di attacco a città fortificate utilizzato nell’antichità, e ancora nel medioevo, prevedeva infatti che si scavassero le fondamenta delle mura per destabilizzarle e farle crollare. Questo lavoro richiedeva tempo e comportava naturalmente il rischio di essere scoperto anzitempo dai difensori. Bisognava quindi distrarre questi ultimi con manovre che richiamassero la loro attenzione mentre si procedeva con gli scavi. Bisognava anche coprire il rumore dei lavori e a questo forse serviva il suono prolungato delle trombe.
La parata di un esercito che si muove silenzioso, la processione fatta di sacerdoti con trombe che accompagnano uno strumento come l’Arca (circonfuso da racconti che ne magnificavano la potenza forse ben oltre la stessa realtà di ciò che era in grado di fare), la tensione dell’attesa di un attacco che quell’esercito poteva sferrare in ogni momento, erano sufficienti a tenere concentrata l’attenzione dei difensori e consentire ai genieri di procedere con la loro opera di scalzamento delle fondamenta attuata in più punti.
Nel momento che precede la caduta delle mura il popolo viene sollecitato da Giosuè a gridare ad alta voce e possiamo pensare che lo abbiano fatto per coprire con quella sceneggiata l’intervento di quelli che stavano togliendo o forse incendiando i supporti temporanei posizionati nel corso dei giorni precedenti per sostenere i tunnel che venivano progressivamente scavati. L’urlo di guerra che precede l’attacco era un sistema ampiamente impiegato negli assalti condotti secondo i sistemi tradizionali.
Certo non possiamo escludere a priori che l’Arca avesse proprietà fuori dall’ordinario, capaci magari di operare con suoni o vibrazioni ad alta frequenza, ma non possediamo elementi biblici concreti che ci consentano di affermarlo – e comunque non sarebbe stato necessario attuare tutta quella lunga sceneggiata durata alcuni giorni.
Esaminato il probabile reale svolgimento di una delle azioni più eclatanti attribuite a quella cassa, e liberato il campo da possibili eccessive fantasie, dobbiamo dire che abbiamo invece un dato incontrovertibile: data la natura particolarmente pericolosa dell’Arca e delle sue funzioni, Yahweh aveva previsto anche regole precise per proteggere la vita di coloro che le si avvicinavano.
Si narra che durante un trasporto su un carro l’Arca rischiava di cadere perché i buoi che trainavano il mezzo ebbero uno scarto improvviso. Visto ciò che stava per accadere, Uzzà stese la mano per sorreggerla e venne fulminato all’istante.
Certo è che il suo gesto non venne premiato, anzi. Ma l’azione micidiale non va attribuita alla crudeltà gratuita di Yahweh, bensì agli automatismi di quel generatore/condensatore elettrico.
Quindi se non vogliamo attribuire a “Dio” un sadismo immotivato e privo di ogni logica, dobbiamo considerare l’aspetto oggettivo della situazione: l’Arca era di per sé pericolosissima.
Davide fu talmente colpito e terrorizzato dall’accaduto che non volle trasferire l’Arca presso di sé, ma la fece portare in casa di Obed-Edom di Gat (2Sam 6,2-11): non voleva assolutamente avere vicino quell’oggetto potenzialmente letale e preferì far correre il rischio a qualcun altro.
L’Arca rimase in quella casa per tre mesi e Yahweh fece in modo di ricompensare il suo ospite: solo dopo essere venuto a conoscenza di questo, Davide provvide a farla trasportare presso di sé, collocandola in una tenda fatta erigere appositamente (2Sam 6,1-19).
A ulteriore conferma di questa caratteristica, nel capitolo 3 del libro di Giosuè abbiamo un episodio molto significativo: si raccomanda al popolo di tenersi alla distanza, decisamente notevole, di 2000 cubiti, cioè circa un chilometro!
Il popolo si trova accampato in Sittim, di fronte al Giordano; si sta preparando ad attraversare il fiume; dopo una sosta di tre giorni giunge il momento di passare sull’altra sponda e gli ufficiali percorrono l’accampamento per trasmettere un ordine preciso.
Il popolo deve attendere che l’Arca si muova trasportata dai Leviti e poi la deve seguire, ma con un accorgimento rivelatore (Gs 3,4):
HSHS dJOf nA
(sia)sarà distanza (però)assolutamente
HFYB HYA rS`WAU
misura-la-in cubito mila-due-come
JS[SBJ rUS[SB
essa-tra-e voi-tra
JSWA JBfdl-WA
essa-a avvicinerete-vi-non
Nel versetto abbiamo alcune indicazioni che ci danno l’evidenza di come la distanza fosse un elemento fondamentale: la particella iniziale [ld_highlight]nA, ach[/ld_highlight] che abbiamo reso con l’espressione letterale «(però) assolutamente» è enfatica e serve ad attribuire importanza a ciò che si sta dicendo: una traduzione più libera, capace di rendere il significato effettivo delle intenzioni contenute nell’ordine impartito dai comandanti, potrebbe essere la seguente: «tra voi e l’Arca ci dovrà assolutamente esserci una distanza di almeno 2000 cubiti».
Abbiamo poi l’invito finale del versetto che sottolinea nuovamente la necessità di non avvicinarsi: l’ordine doveva essere chiaro e soprattutto eseguito senza incertezze.
L’Arca era particolarmente carica di energia e quindi pericolosa?
Non abbiamo una risposta certa ma dal testo comprendiamo che, fatta eccezione per gli addetti, era essenziale starne lontani.
I portatori dell’Arca passano dunque in testa al popolo ed entrano nel letto del fiume; quando i loro piedi sono nell’acqua si fermano e si verifica un fenomeno decisamente fuori dall’ordinario: le acque del fiume cessano di scorrere, si bloccano in alto, e quelle sottostanti continuano a fluire verso il basso lasciando asciutto il letto del Giordano.
I portatori dell’Arca rimangono stabili nella loro posizione così che il popolo possa attraversare e raggiungere agevolmente l’altra sponda del fiume di fronte alla città di Gerico. Terminato il passaggio, Yahweh ordina a Giosuè di far risalire i portatori dell’Arca e, non appena questi sono sulla sponda, le acque tornano a fluire.
Non sappiamo che cosa sia realmente accaduto, ma non abbiamo dubbi su un fatto: il testo biblico pone in relazione diretta l’arresto delle acque con la presenza fisica dell’Arca.
Non possiamo esimerci dal fare alcune considerazioni.
Se Yahweh fosse il Dio descritto dalla teologia, ci chiediamo che necessità avrebbe avuto di trasferire simbolicamente sull’Arca la sua capacità di strabiliare il popolo: un suo ordine sarebbe stato sufficiente per fermare le acque e gli Israeliti avrebbero avuto un’ennesima dimostrazione della sua inarrivabile potenza e del suo totale controllo sul creato.
Possiamo invece supporre che egli abbia utilizzato una situazione di cui era a conoscenza o che l’abbia volutamente procurata. Nei tre giorni di sosta potrebbe, ad esempio, avere fatto costruire da alcuni dei fedelissimi uno sbarramento per fermare le acque a monte e ingannare poi il popolo facendogli credere che il tutto fosse un effetto della presenza dell’Arca. Se così fosse saremmo in presenza di un individuo che non disponeva di quei poteri che gli vengono attribuiti e che doveva quindi ricorrere a dei sotterfugi per ingannare i suoi fedeli, facendo credere loro di avere delle capacità in realtà inesistenti.
Verrebbe da pensare che sia stato soprattutto uno strumento atto a esercitare il potere sul popolo quindi, tenuto in soggezione con le minacce e con il terrore e bloccato dalla paura di subire le conseguenze dell’ira di Yahweh che si scatenava attraverso di essa.
Purtroppo non ci è dato sapere con certezza se avesse capacità ed efficacia più ampie ed estese; al di là dell’effetto psicologico che la sua presenza produceva sugli Ebrei e sui nemici, non abbiamo infatti descrizioni concrete delle modalità di utilizzo in battaglia, per cui non possiamo che rammaricarci per la perdita de Il libro delle guerre di Yahweh, che la Bibbia cita nel libro dei Numeri (21,14-15), perché forse ci avrebbe fornito notizie dettagliate sul modo in cui veniva utilizzata negli scontri.
Non ci rimane che sperare in una sua futura ricomparsa.
Arca o Yahweh?
Chiudiamo esaminando due fatti la cui chiave di lettura si presta a una duplice interpretazione. Si tratta di uccisioni compiute ai danni di alcuni appartenenti al popolo di Israele e la cui narrazione può indurre a formulare la seguente domanda: sono state compiute direttamente da Yahweh oppure sono un effetto dell’energia accumulata nell’Arca?
In Levitico 10,1-3 abbiamo la drammatica vicenda occorsa a due figli di Aronne che vengono uccisi per un motivo che francamente appare inspiegabile e, soprattutto, inaccettabile. Siamo nel deserto, Yahweh dispone della sua dimora che noi conosciamo come Tempio-tenda; in quella struttura smontabile egli soggiorna e i suoi servitori (i sacerdoti) devono svolgere una serie di compiti che sono assegnati e descritti con estrema precisione. Come detto, due figli di Aronne, Nadab e Abiu, prendono i loro due bracieri, vi mettono il fuoco e lo presentano all’Elohim; il versetto 1 dice che si trattava peròdi un fuoco HfM[zara] «strano», che non era stato loro ordinato.
Il termine [zara] deriva dalla radice [zur] e indica un elemento «straniero, separato, diverso»; contiene però anche il significato di «ripugnante, disgustoso».
Quelle offerte di fumi che dovevano essere portate nella dimora avevano scopi per nulla simbolici o spirituali:
l’Elohim di nome Yahweh voleva annusare fisicamente dei fumi che dovevano essere preparati seguendo precise istruzioni. Le indicazioni erano precise (non le analizziamo qui per brevità) e trovare quindi un termine come [zara] con il significato di «ripugnante, disgustoso» non ci stupisce. Evidentemente non voleva odori diversi da quelli prescritti.
Questo gesto di rispetto verso la “divinità”, un’offerta spontanea fatta dai due e dunque apparentemente apprezzabile, si rivela quindi un’imprudenza dalle conseguenze drammatiche: l’Elohim reagisce immediatamente e «un fuoco uscì da facce di Yahweh e li divorò ed essi morirono a facce di Yahweh» (10,2).
- Abbiamo quindi un “Dio” che non tiene minimamente conto delle intenzioni dei suoi fedeli servitori?
- Oppure la morte è stata accidentale? La conseguenza inevitabile di un errore che per i due è stato fatale?
Ci chiediamo se non fosse per caso necessario rispettare con precisione una tempistica: nel capitolo 40 del libro dell’Esodo si evidenzia come non si dovesse entrare nel Tempio quando l’Elohim vi si presentava, perché c’era il rischio di morire.
A ulteriore conferma della concretezza reale di questo pericolo, abbiamo un passo nel quale è Yahweh stesso a ricordarlo.
Levitico 16,1 e segg. si apre con il ricordo dei due giovani morti mentre presentavano l’offerta e prosegue con una serie di disposizioniche Yahweh sta impartendo a Mosè.
La prima è decisamente importante, Mosè deve infatti dire ad Aronne (Lv 16,2):
vFdH-WA l_-WUB ABS-WAJ
sacro-il-(verso)in momento-ogni-in (verrà)entrerà-non-e
lf`UH S[`-WA lUf`W lSBY
coperchio-il di-facce-verso tenda-la-a di-casa-da
lJYS AWJ sfAH-W_ fvA
morirà non-e arca-la-su che
lf`UH-W_ HAfA s[_B SU
coperchio-il-su visto-sarò nube-la-in poiché
L’indicazione è chiara: se Aronne non vuole correre il rischio di morire, deve evitare di entrare nella parte più interna del Tempio in un qualunque momento; può farlo solo in circostanze ben precise, perché se malauguratamente si trova nel vFd [kodesc], «parte riservata», mentre Yahweh è presente con la sua solita “nube”, questa lo uccide.
Evidentemente, la presenza di quell’Elohim con il suo non meglio definito apparato – che viene impropriamente identificato come gloria di Dio” – produceva degli effetti precisi nello spazio circostante. Aronne doveva quindi avere l’accortezza di non trovarsi nel Tempio in un momento inopportuno.
Dunque alla domanda precedentemente formulata se si fosse trattato di un’uccisione volontaria o di una morte causata da una tragica fatalità dovuta a una scelta sbagliata dei tempi, non possiamo rispondere con certezza. Tuttavia non pare che ci siano dubbi su di un elemento incontrovertibile: fare le cose nel modo o nelmomento sbagliato poteva costare la vita.
L’Arca con il suo apparato era carica?
Teniamo a mente un particolare: i due giovani avevano in mano il loro HlOY [machtah], «recipiente metallico, braciere» per bruciare gli incensi.
Ricordiamo che tutte le prescrizioni e proibizioni riguardanti l’Arca terminavano sempre con un avvertimento, o sarebbe meglio dire una minaccia: il capitolo 4 del libro dei Numeri ne rappresenta una chiara sintesi, la pena per ogni atto autonomo non preordinato era sempre la morte.
- È probabile che con ciò s’intendesse evidenziare il pericolo fatale che incombeva su chi agiva senza la preparazione prevista e senza le necessarie precauzioni?
- Possiamo pensare a una sorta di “chi tocca i fili muore” ante litteram?
Quando doveva essere preparata per il trasporto, erano Aronne e i suoi figli a occuparsi del complesso imballaggio degli arredi e nessuno doveva permettersi di curiosare: in Nm 4,20 si dice che gli stessi Leviti dovevano astenersi dal guardare le «cose sacre», perché sarebbero morti.
Il secondo episodio che vogliamo esaminare si trova nel capitolo 16 del libro dei Numeri.
Gli Ebrei fuoriusciti dall’Egitto si trovano in Kadesh-Barnea, nel nordest della penisola del Sinai e, tra di essi, un gruppo di 250 notabili mette in discussione il primato di Mosè.
Guidati da Core, Datan e Abiram, i rivoltosi gli chiedono conto del suo ergersi a capo della comunità: questo non è che uno di vari momenti di tensione di cui il testo biblico ci dà spesso conto.
La gente è stanca, la vita nel deserto è dura, il cibo spesso non è soddisfacente per qualità e per quantità: questo insieme di elementi fortemente negativi crea l’occasione per contestare la leadership di coloro che sono ritenuti responsabili.
Mosè non si lascia piegare, da militare quale poteva essere stato in Egitto sa come fronteggiare la situazione e propone di lasciare decidere a Yahweh.
Ordina ai rivoltosi di presentarsi il mattino seguente muniti dei loro incensieri di bronzo per fare offerte a Yahweh. Quando i 250 uomini si radunano di fronte alla Tenda del Convegno, ciascuno con il suo braciere metallico [machtah], si presenta la “gloria di Yahweh” e l’Elohim ordina a tutti di allontanarsi dalle tende dei rivoltosi che vengono inghiottite con i loro occupanti e le suppellettili in un baratro che si apre improvvisamente nel terreno.
Nel contempo (Nm 16,35):
WUAlJ HJHS lAY HAbS vAJ
bruciò-e Yahweh con-da uscì fuoco-e
…i 250 uomini che offrivano l’incenso con i loro bracieri!
Non sappiamo con esattezza se quel fuoco sia uscito dal [kavod] che era comparso poco prima o dall’Arca dell’Alleanza, visto che i malcapitati erano stati radunati vicino all’ingresso della tenda in cui Mosè si incontrava con Yahweh.
Annotiamo che, come nell’evento precedente, anche queste nuove vittime dell’ira divina hanno in mano un oggetto metallico che potrebbe amplificare gli effetti di una scarica elettrica prodotta da quel generatore che abbiamo visto essere l’Arca.
In ogni caso, quale che sia l’origine del «fuoco», abbiamo la descrizione dell’uso di uno strumento che colpisce e uccide bruciando.
In sintesi
Possiamo ora concludere affermando che, dalla lettura dei testi, l’Arca dell’Alleanza si presenta chiaramente come un oggetto tecnologico caratterizzato almeno da un duplice utilizzo: arma e strumento per le comunicazioni a distanza.
Entrambe le funzioni sono in un qualche modo riconducibili alla sua struttura di fondo, che ne faceva un generatore e/o condensatore di energia (così come definita dal rabbino Moshè Levine), che veniva usata di volta in volta per colpire uomini o per alimentare il sistema di trasmissione radio i cui elementi specifici erano costituiti dalle lamine laterali dei cosiddetti cherubini posti sul suo coperchio.
Va detto che i dati biblici che la descrivono, le modalità di utilizzo e le occasioni in cui la vediamo in funzione non consentono di fantasticare su improbabili poteri straordinari, ma danno comunque conto dell’esistenza in quel deserto di un oggetto che, stanti le conoscenze attribuibili a quelle culture e a quel periodo storico, non avrebbe dovuto o potuto esserci.
Questo dato ci fa riflettere seriamente su tutta quella letteratura fiorita intorno all’Arca che è stata caricata di valenze mistico-spirituali, esoteriche, allegoriche e simboliche, frutto di un’elaborazione fantasiosa, caratterizzata da astrazioni che non hanno tenuto in minimo conto la concretezza dei racconti che riguardano quell’oggetto di legno e oro, costruito seguendo istruzioni tecniche precise e chiaramente finalizzate alla produzione di effetti concreti.
Immagine cover/P Maxwell Photography/Shutterstock