“Come descrivere in maniera esaustiva la religione della Roma arcaica? Attraverso un denso percorso entro il sistema cultuale romano nelle sue espressioni più autentiche e in alcune sue manifestazioni piuttosto singolari (e talora persino bizzarre), questo saggio delinea un ritratto del cultus deorum romano dal quale emergono in modo estremamente chiaro i presupposti teologici e antropologici che stanno alla base dell’intero dispositivo cultuale nonché la percezione del religioso dei Romani dell’epoca delle origini”
Mauro Biglino presenta “Prima della Fede”, il nuovo libro del Prof. Gian Matteo Corrias.
Mauro Biglino – Oggi parliamo del libro “Prima della Fede”, un testo veramente importante, accademico, che fornisce interessati dettagli alla storia dell’antica Roma. I concetti espressi in questo saggio in realtà riguardano la storia dell’umanità, soprattutto nella parte relativa ai rapporti arcaici tra l’umanità e le cosiddette divinità. Possiamo quindi affermare che questo è un contenuto importantissimo che interessa tutti. E’ un libro per studenti e per docenti di scuole superiori e di Università ed è un libro anche per tutti i curiosi: noi sappiamo che la curiosità è ciò che ci muove, ciò che ci spinge.
Ho avuto il privilegio di leggere questo libro dalla prima stesura e già il titolo del libro suggerisce proprio la scelta di una prospettiva precisa per quanto riguarda la religione Romana antica ma non solo. La religione Romana antica prevede l’assenza di quello che è invece un elemento distintivo fondamentale, imprescindibile delle religioni moderne: la Fede. Il “credo in qualcosa che non vedo”, “credo in qualcosa che non conosco”.
In quei tempi e in quei culti la Fede era assente: è corretta questa impostazione?
Prof. Corrias – Sì certo, è corretta: il titolo infatti è piuttosto esplicito da questo punto di vista. Abbiamo deciso di intitolare il saggio “Prima della Fede” e a questo che è il titolo si accompagna un sottotitolo che è ugualmente piuttosto utile nella sua capacità esplicativa che è “Antropologia e teologia del culto romano arcaico”. In effetti fin dal titolo ho deciso di collocare il lettore, almeno provare a collocare il lettore, in maniera immediata all’interno della specifica prospettiva interpretativa che ho adottato nello studio della fenomenologia religiosa dell’arcaismo romano perché anche questo saggio, come i miei precedenti, si occupa prevalentemente di quella porzione, diciamo così, della storia romana che in genere risulta meno osservata proprio perché è più difficile a partire dalla quantità piuttosto esigua di fonti che ci restituiscono l’immagine della storia romana appunto più arcaica: i primi due secoli e mezzo della storia dell’Urbe, l’epoca monarchica per così dire.
E qual è questa specifica prospettiva che ho adottato appunto nell’osservazione del fatto religioso nella Roma arcaica? In realtà non è una prospettiva nuova nel senso che è in gran parte debitrice degli studi di antropologia culturale che a partire dal lavoro del grande Raffaele Pettazoni proponeva questa distinzione piuttosto netta tra “religioni antiche” come le chiama lui e “religioni moderne” come appunto anche tu hai definito il Cristianesimo che è la religione moderna più vicina alla nostra alla civiltà e alla nostra sensibilità.
MB – Quale sarebbe la differenza sostanziale tra le religioni antiche, quali per esempio la religione romana appunto, ma anche quella greca, quella vedica, quella avestica, le religioni dell’America precolombiane e così via?
MC– Fondamentalmente le religioni antiche, secondo la lettura antropologico culturale, sono prive di un nucleo dogmatico di riferimento al quale aderire. Le religioni arcaiche erano sostanzialmente sistemi di regolazione dei rapporti tra gli uomini e gli Dèi di riferimento. Soprattutto il modo in cui le religioni arcaiche caratterizzano i loro Dèi, quelli che per comodità chiamiamo con questo termine, il cui carattere evidentemente è quanto mai distante dall’immagine che poi le teologie avrebbero elaborato delle divinità.
E qui arriviamo proprio al titolo del saggio “Prima della Fede”: le religioni arcaiche erano fondamentalmente estranee ad ogni prospettiva di tipo fideistico. Già da tempo l’antropologia culturale ha puntato la propria attenzione sul concetto della Fede soprattutto in relazione appunto allo studio di sistemi culturali come quello romano. In particolare mi viene in mente il lavoro di un antropologo, Rodney Needham, che nei suoi lavori riesce a dimostrare fondamentalmente che il concetto di Fede – che noi sulla base della nostra attitudine culturale tendiamo a interpretare come qualcosa di innato nell’essere umano, quasi come una sorta di effetto del nostro patrimonio genetico diciamo così – in realtà non è un’attitudine naturale ma è qualcosa che noi acquisiamo attraverso la cultura nella quale siamo immersi. In particolare secondo Needham l’atteggiamento della Fede sarebbe il risultato delle particolari trasformazioni che i dogmi dell’Incarnazione, della Redenzione e della Resurrezione nel Cristianesimo avrebbero prodotto. Insomma la religione romana è una religione, come tutte le religioni arcaiche, estranea a questa dinamica che è la dinamica della adesione a un nucleo di asserzioni di tipo dogmatico perfetto. In questa ricerca ho cercato di leggere l’arcaismo romano e la fenomenologia religiosa nell’arcaismo romano alla luce dell’acquisizione di un fondamentale strumento storico critico, diciamo così, stabilito. È, a mio giudizio, interessante il concetto, lo dico in tedesco perché così è stato battezzato per la prima volta da Karl Jaspers, di “achsenzeit” che possiamo tradurre “epoca assiale”.
Abbiamo già dedicato un intero video a questo concetto della rivoluzione assiale. Fondamentalmente Jaspers metteva in evidenza come esisterebbe un periodo della storia universale, i cui estremi lui individua tra il IX e il III secolo avanti Cristo, durante il quale a livello planetario in tutte le culture, in tutte le civiltà, si sono prodotte delle trasformazioni a tutti i livelli quindi a livello politico, economico, storico, culturale, artistico e religioso appunto di tale profondità da mutare in maniera irreversibile l’aspetto stesso di quelle civiltà. Alla base di questa trasformazione ci sono evidentemente delle questioni legate alla storia della coscienza, alla storia delle capacità cognitive dell’essere umano che in questo periodo avrebbe strutturato delle abilità di tipo logico, di tipo categoriale e di tipo astrattivo che prima non aveva. E’ evidente che le ricadute sul piano della storia delle religioni di un discorso come questo che appunto autori come Walter Jackson Ong, Julian Jaynes, di linguisti come Milman Parry e Eric Aveloc o gli etnologi quali Alexander Romanovic Luria, i cui lavori cito nel mio nel mio saggio, dimostrano su base sperimentale quale sia la portata delle ricadute sul piano della storia delle religioni di un discorso come questo.
Quindi possiamo semplificare affermando che le religioni arcaiche, chiamiamole ora preassiali, precedenti cioè a questa rivoluzione assiale e quindi tutte le religioni antiche come le avrebbe chiamate Pettazzoni, erano incapaci di tematizzare una dimensione metafisica, una dimensione trascendente. Dimensione metafisica e trascendente che poi invece diventa il fulcro delle religioni moderne come ad esempio del Cristianesimo.
Alla luce di questa particolare prospettiva, ho cercato nei capitoli di questo saggio di osservare la religione romana.
MB – Qui avremmo da parlarne veramente per moltissimo tempo… Tra l’altro c’è una cosa che ci accomuna in questo libro e la voglio dire: il fatto che è pubblicato da la casa editrice Tuthi che è la stessa che ha pubblicato “La Bibbia nuda” e “The Naked Bible” che hanno un grande successo per cui io ti auguro di avere un successo addirittura superiore perché veramente ne sarei felicissimo.
Scorrendo l’indice del testo si capisce che veramente tu hai trattato una grande varietà di temi, temi che vanno da contenuti di carattere più generale come ad esempio la caratterizzazione che hai fatto del “cultus deorum” a temi più specifici come, mi viene in mente, il sacrificio, il sacrificio umano oppure addirittura dei rituali che mi viene da definire curiosi come quello della fumigazione, i culti di maledizione, addirittura il culto degli escrementi.
A proposito di fumigazione permettimi di dire due parole sulla copertina perché so essere stata oggetto di un lungo e articolato studio per riuscire a concentrare l’ampiezza dei contenuti del tuo libro. Qui c’è una divinità che in un modo contemporaneamente gentile, elegante ma crudele spinge l’uomo al sacrificio, al sacrificio umano per poi arrivare alla produzione delle fumigazioni e di quant’altro serviva agli dèi di cui tu parli poi all’interno di questo libro.
Quindi in realtà all’interno dell’ampiezza dei temi che tu tratti qual è il disegno complessivo del libro?
MC -Diciamo che il libro unisce da un lato la necessaria intenzione sistematica che è indispensabile per strutturare un discorso che voglia perseguire un obiettivo unitario, dall’altra però io ho cercato di tener presente anche che la lettura deve essere fondamentalmente piacevole e quindi mi sono concesso, diciamo così, Il piacere della divagazione. In effetti l’organizzazione della materia all’interno del libro risente proprio del piacere dell’esplorazione di aspetti anche piuttosto diversi del dispositivo cultuale romano che era davvero complesso, soffermandomi anche su aspetti che sono, almeno alla nostra sensibilità, piuttosto curiosi e persino bizzarri: dall’azione sacrificale ai sacrifici umani, i culti di fumigazione, addirittura culti di carattere escrementizio legati a particolarissime divinità, i rituali di maledizione e così via.
Credo però che dalla lettura nel suo complesso emerga in maniera chiara e definita un quadro molto dettagliato della natura dei meccanismi, del carattere, dei paradigmi che sottendono la religione romana. Ecco, appunto, come esplicita il sottotitolo che citavo anche prima: l’obiettivo ultimo di questo lavoro è quello di delineare in maniera chiara l’antropologia da un lato e dall’altro la teologia della religione romana arcaica.
MB – Questo libro ha una caratteristica: è strutturato in modo tale da poter essere anche un testo di consultazione, nel senso che ci sono singoli temi – leggo ad esempio il sacrificio come nutrimento per gli dèi, il vino e l’incenso e le osservazioni sul sacrificio umano e così via – che quindi possono essere consultati separatamente l’uno dall’altro.
Parlavi di teologia: in che senso è possibile parlare di teologia nella cosiddetta religione arcaica romana che è lontanissima, aliena – chiariamoci bene onde evitare equivoci – aliena vuol dire distante da, contraria a ogni sistema di dogmatizzazione o di creazione di un sistema di Fede?
MC– Da questo punto di vista questo saggio è in un certo senso il risultato di un approfondimento, di una più attenta meditazione anche proprio sulla questione specifica di una teologia del culto romano arcaico. È evidente che se noi intendiamo il termine teologia nell’accezione che poi questo termine ha assunto nella moderna sensibilità in riferimento soprattutto alle religioni moderne e al Cristianesimo in particolare e quindi se intendiamo il termine teologia nel senso di un discorso sistematico sulla dimensione trascendente, sulla dimensione divina di un Dio poi con le caratteristiche che esso ha nella religione cristiana, ebbene è evidente che non c’è spazio per la teologia all’interno di una religione come quella romana arcaica. E’ vero però che un sistema cultuale così meticolosamente regolato, così attentamente strutturato con delle caratteristiche e delle costanti anche così ricorrenti, deve pur basarsi su delle convinzioni, su delle persuasioni relative alla natura degli dèi, alle loro esigenze, alle loro caratteristiche, alla natura dei rapporti tra gli uomini e le divinità che se non sono teologia in senso sistematico, in senso metafisico, sono però a tutti gli effetti teologia in senso etimologico. I Romani avevano delle convinzioni sulle loro divinità, delle convinzioni che emergono più o meno carsicamente proprio attraverso l’osservazione delle manifestazioni del sacro e del religioso a Roma.
Questa teologia implicita che i Romani avevano e che sostanzia poi tutto il dispositivo cultuale, Roma la condivide con tutte le altre religioni arcaiche e quindi diciamo pure che gli dèi erano potenti ma non onnipotenti. A Roma in particolare si vede come avessero un campo d’azione piuttosto limitato, delle competenze specifiche organizzate, come già ha dimostrato magistralmente Georges Dumézil nei suoi studi, organizzata secondo un criterio di tipo funzionale. Gli dèi erano suddivisi sia gerarchicamente sia da un punto di vista delle competenze specifiche fino ad arrivare a delle competenze anche molto puntuali: è il caso di tutti quegli dèi che a Roma si chiamavano “indigetes” che si occupavano di quasi frammenti della vita della società.
La riflessione sul dispositivo cultuale permette di mettere in evidenza anche quelli che erano i bisogni, le necessità di queste divinità. Lo studio del sacrificio consente proprio di evidenziare qual era lo scopo a cui l’azione sacrificale, cioè l’offerta di un bene alimentare alle divinità, era tesa a perseguire e quale tipo di gratificazione questa azione voleva raggiungere per le divinità.
Noi scopriamo addirittura – ma qui non voglio anticipare troppo per non rovinare il gusto della lettura – che il sacrificio non era solo gradito agli dèi ma potremmo spingerci a dire che il sacrificio era necessario per la sopravvivenza stessa degli dèi e questo non lo dico sulla base di una illazione o di una facile deduzione ma lo dico sulla base delle fonti che nel libro mi preoccupo di osservare e di repertoriare e di presentare all’attenzione del lettore. Tra l’altro chiudo osservando che anche la recentissima critica storiografica sulla religione romana della studiosa Francesca Prescendi è approdata a questa stessa convinzione: gli dèi avevano bisogno del sacrificio per il loro nutrimento e il sacrificio offriva nutrimento agli dèi.
MB– Qui si apre veramente un campo vastissimo perché il collegamento tra i temi trattati in modo specifico in questo saggio e altre religioni arcaiche, ho in mente quella Vedica e comunque quelle dell’estremo Oriente o quella stessa israelitica cui tu per altro fai riferimento, rimandano proprio allo stesso tipo di concetto con anche dei collegamenti precisi: penso ad esempio all’incenso – tu tra l’altro dedichi un capitolo a vino e incenso – all’incenso per i Romani e al “ketoret” per gli Ebrei, penso all’uso della cenere nel sacrificio dei “Forcidia”: lo si può mettere in parallelo con il sacrificio della vacca rossa descritto nella Bibbia… Però nel sottotitolo del libro, al di là del discorso appunto della teologia che è chiaro non può essere applicata così come viene intesa ad esempio nel Cristianesimo, ma tu nel sottotitolo che recita “Antropologia e teologia del culto romano antico” fai appunto riferimento ad una precisa antropologia. Ci puoi dire qualcosa ancora in merito a questo?
MC– Credo che questo sia un altro aspetto di novità di questo saggio rispetto alla letteratura critica disponibile perché, come nel caso della teologia del culto romano che come abbiamo detto si deve recuperare per via inferenziale attraverso l’osservazione e lo studio delle fonti e lo studio delle azioni rituali, penso che la stessa cosa si possa fare sul piano antropologico. La sintassi cultuale, il modo in cui i Romani celebravano la loro ritualità, consente di recuperare anche delle precise informazioni relative al modo in cui i Romani immaginavano per esempio la psicofisiologia del corpo umano, il modo in cui cioè l’uomo era costruito nella sua dimensione complessiva.
Ci sono alcuni esempi che potremmo fare che sono davvero illuminanti. Ad esempio in riferimento ai culti resi a divinità di natura escrementizia, penso in particolare al culto di un Dio che i Romani chiamavano “Stercutus” e di cui discuto appunto nel libro che da alcune fonti è stato interpretato come un cognome rituale di Saturno ma che altre fonti invece autorizzano a ritenere come una divinità autonoma. Ecco lì è chiaro che la necessità che si impone è quella di ragionare sul modo in cui i Romani intendevano le deiezioni umane. Quello che emerge da questo studio piuttosto particolare, piuttosto bizzarro ma la cui necessità si impone a partire proprio da ciò che si osserva nelle fonti, ciò che emerge è che i Romani consideravano gli escrementi come una manifestazione di una delle porzioni costitutive fondamentali dell’essere umano cioè quella che i Greci chiamavano “thymos“.
Il “thymos” presso i Greci e i Romani, ma non solo, era considerato come la sede della coscienza emotiva, dell’autopercezione cosciente dell’individuo. Tra l’altro io qui lavoro anche attraverso lo studio dell’etimologia e delle radici e “thymos” è possibile collegarlo con una parola latina che è “fimus“: “fimus” è appunto il letame. Evidentemente nel modo in cui i Romani si rappresentavano il funzionamento dell’organismo umano gli escrementi erano un prodotto di questa parte molto specifica della persona che è appunto il “thymos”. A confermare questa intuizione evidentemente i Romani ponevano il fatto che per concimare i campi ciò che si può utilizzare è proprio questo particolare elemento.
Ancora citavi il vino e il vino ha un ruolo essenziale nella sintassi sacrificale cioè nel modo in cui i Romani celebravano il sacrificio perché ricorre in due momenti molto importanti del sacrificio: nell’azione preliminare in quella che si chiamava “Praefatio” che serviva a convocare le divinità e poi nella “Immolatio” e il ruolo del vino era proprio quello di consacrare la vittima sancendone la destinazione divina.
Le fonti: in particolare mi viene in mente un passaggio sorprendentemente esplicito di Petronio che dice “Vita vinum est” la vita è il vino. Il vino nella sensibilità romana e anche in quella greca era associato a un altro elemento costitutivo del corpo che era la “psyché” così la chiamavano i Greci. La “psyché”, ne abbiamo parlato per esempio nel video “Le corna divine” di qualche mese fa, era invece collegata alla presenza di liquidi chiari all’interno del corpo umano, i liquidi chiari che sarebbero il supporto materiale di quello che potremmo definire lo spirito vitale. Con tutta probabilità erano considerazioni di carattere empirico a guidare questa particolare interpretazione dei Romani perché è evidente che la vita è collegata al cervello, è collegata all’emissione seminale, addirittura si trasmette attraverso l’emissione seminale e così via. Quindi anche da questo punto di vista lo studio che ho condotto consente di illuminare degli aspetti della concezione che i Romani misero in atto nel momento in cui strutturarono il proprio dispositivo cultuale che non è così facile trovare indagati nella letteratura critica che si è occupata del culto romano arcaico.
MB -Per questo io spero veramente che i futuri lettori siano tanti, lo spero per il loro bene, per la loro cultura perché questo rappresenta veramente un passo in più nel cammino della curiosità, verso la conoscenza della possibile vera storia dell’umanità ma soprattutto della possibile vera storia del rapporto tra gli uomini e le cosiddette divinità.
Leggo solo due righe dalla quarta di copertina che sono estremamente significative. Sono state scritte da Arnobio di Sicca e siamo nel IV secolo era originario della Africa proconsolare: “Fate in modo per favore che gli dèi mortali bevano, tirate giù calici, coppe, piattini e vasi e giacché si ingozzano di tori, pietanze grasse e cibi succulenti, soccorreteli, accorrete affinché qualche boccone male ingurgitato non si blocchi nell’esofago”.
Siamo veramente ad un livello se vuoi sarcastico ma di concretezza che è davvero impressionante e quindi proprio questo ci dà l’idea di ciò che i futuri elettori troveranno nel tuo libro, ci sono tantissimi riferimenti utili.
Questo libro che si occupa in modo specifico e molto originale della religione arcaica romana è in realtà collegabile con quel che succedeva nelle cosiddette religioni preassiali, quando il rapporto con le divinità era di un certo tipo.
Quindi non mi rimane altro che dire appunto che non si può – lo so, sembra una frase fatta ma io lo dico veramente col cuore – non si può non prendere in considerazione questo libro, non si può non averlo. Non mi rimane che dire “buona lettura” a tutti, una lettura che arricchisce, una lettura molto piacevole, una lettura che ci porta moltissime informazioni ma soprattutto che crea moltissimi stimoli per le persone curiose e questo è secondo me l’aspetto fondamentale perché sono stimoli motivati da contenuti precisi, contenuti che si rifanno alle fonti e questo è fondamentale.
Gian Matteo Corrias: Dottore di ricerca in civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento presso l’Università degli studi di Firenze, parte delle ricerche svolte presso ‘Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, autore di “Dèi e religione nell’antica Roma”, “Esoterismo e culti misterici nell’antica Roma”, “Gli Dèi di Roma antica” “Il divino e il sacro nell’epoca arcaica”. Ha collaborato per la parte linguistica alla realizzazione di un corso multimediale di latino “Atticus” pubblicato da Pearson in Italia, fa parte del comitato scientifico della rivista di studi storici architettonici e filologici “Aristana”, ha collaborato alla realizzazione di diversi prodotti multimediali tra i quali “Una giornata particolare: Giulio Cesare”, documentario trasmesso da La7. Collabora come esperto latinista nella questione relativa alle cosiddette dimissioni di Papa Benedetto XVI.